Psicoterapia e cassette degli attrezzi

Qualche giorno fa ho condiviso una story su instagram in cui parlavo dello stress che mi causa il trasloco e di come i grandi cambiamenti mi piacciano ma allo stesso tempo mi risucchino molte energie, lasciandomi sfiancata. La mia stanchezza, dicevo, è soprattutto mentale: sono una di quelle persone con il cervello sempre in iperattività e nei momenti di tensione faccio doppiamente fatica perché non riesco veramente più a concentrarmi su niente. Ho ricevuto alcune risposte e, la maggior parte, riguardavano la psicoterapia. Qualcuno mi ha scritto che ha lo stesso problema, ma da quando ha iniziato un percorso di terapia va meglio, qualcun altro che condivide quello che provo e che vorrebbe iniziare al più presto ad andare da uno psicologo per lavorare sui propri limiti. La cosa che mi ha fatto pensare è che nella mia story non ho accennato alla psicologia, ma allo stesso tempo mi è piaciuto il tempismo con cui mi sono arrivati questi messaggi, proprio quando avevo in mente di parlare, in modo sommario, diciamo, del mio percorso di psicoterapia.

Premetto che non lo faccio per convincere nessuno e nemmeno per dire che wow, sono figa perché vado dalla psicologa. No. È solo una mia riflessione sull’importanza che questo percorso sta avendo per me sotto moltissimi punti di vista. Parlo soltanto della mia esperienza personale e delle mie impressioni ed emozioni.

Cinque anni fa

Ho iniziato 5 anni fa, per elaborare la perdita di mio papà. Ho aspettato quasi un anno, dopo la sua morte. Ero convinta di riuscire a mettere insieme i pezzi del puzzle da sola, ma mi sono trovata a fronteggiare una persona nuova e completamente sorda alle mie richieste. Non mi riconoscevo e non sapevo come gestirmi. Avevo già provato percorsi di terapia cognitivo comportamentale in passato, ma in quel momento sentivo la necessità di affrontare tutto in modo più profondo e volevo tempo, tanto tempo.

In questi anni ci sono state volte in cui ho pensato di mollare, in cui mi è sembrato che non servisse a niente, in cui una parte di me voleva dare retta a chi pensa che la psicoterapia sia un pronto soccorso dove risolvi le cose perché una persona estranea ti dice cosa fare, e siccome la mia psicologa non mi ha mai detto mezza volta cosa dovrei fare, a volte ho pensato fosse inutile. Una cosa è certa: non mi sono mai pentita, mai sentita matta, mai sentita debole. Anzi. Mi ha dato molta forza.

Ho parlato moltissimo del lutto con la mia terapista, ma abbiamo poi affondato in mille altri argomenti, tante di quelle “chiacchiere” che pensavo frivole e che invece ora vedo belle nitide nella definizione del mio carattere (che è sempre lo stesso, solo scritto col pennarello anziché con la matita). In un certo senso, è come se mi vedessi da fuori, con tutto il mio pacchetto di emozioni che in questi anni ho imparato (quasi) a gestire. Sicuramente a riconoscere.

Il lavoro e la definzione di me

Un mio grande cruccio è sempre stato la definizione di me, che credevo corrispondesse a una posizione lavorativa. Ho visto alcune amiche entrare in azienda, “definirsi”, arricchirsi, spostarsi, viaggiare. Io no, sono stata molto ferma. E me ne sono fatta una grande colpa, a essere sincera mi sono sentita una fallita, per molto tempo. Bassissima autostima, derivante soprattutto dal fatto di aver dato troppo peso a certe cattiverie. Insomma, tutti abbiamo amici o parenti-serpi che, anziché incoraggiarci, sparano con il mirino sul nostro tallone d’Achille, puntando dritti sulla nostra scarsa autostima. Per me è stato così e per rinfrancarmi ho cambiato molti lavori diversi, che non mi soddisfacevano, ma almeno mi davano una definizione. Peccato che non fosse la mia. Io volevo scrivere, comunicare, esprimermi. Ma sono sempre stata troppa insicura, troppo impaurita per farlo davvero. Non so per quante sedute ho ripetuto il mio scontento lavorativo. Sono andata avanti a lamentarmi anche quando mi sono “messa in proprio” la prima volta, ed è stato un fallimento totale. Per uscirne, sono tornata sui miei passi: un lavoro che la vecchia me aveva amato alla follia e che credevo sarebbe stata la mia boa in mezzo a un oceano di insicurezze. No, non mi ci sono più trovata, la nuova Francesca, quella che nel frattempo era cambiata e, soprattutto, aveva imparato ad accettare il cambiamento, in quel ruolo lì non ci stava più. Ci sono rimasta male? No, perché è stato il momento in cui ho preso il coraggio di staccarmi e andarmene per la mia strada una volta per tutte. La sto ancora costruendo la mia strada, ma quello è stato un momento cruciale. E io sono sicura che se non avessi affrontato a mente e cuore aperti il percorso di psicoterapia diventando una spugna ma anche un’antenna, non ci sarei mai riuscita.

La cassetta degli attrezzi

Quello che voglio dire e che probabilmente non sono riuscita a spiegare, è che non si tratta di andare da una persona a sfogarsi del mondo brutto e cattivo e della paura dell’aereo e delle cavallette e a piangere per il lavoro sbagliato con la speranza che lei risolva tutto. È un percorso lungo di crescita e accettazione, dove una persona parla molto poco ma allo stesso tempo ti aiuta a costruire e utilizzare una cassetta degli attrezzi. Gli attrezzi sono le emozioni. Il fatto che io sia cambiata non vuol dire che allora abbia perso l’emotività o che non sia più permalosa oppure che ogni volo in aereo ora sia una boccata di relax, o che sia diventata immune alla tristezza. Anzi, tutto questo resta, con la differenza che, rispetto a prima, so riconoscere quello che provo, i miei meriti e le mie sconfitte. E ci rifletto, mi faccio domande. Ho imparato che le emozioni non dipendono MAI in nessun modo dagli altri, ma che al massimo qualcuno può accendere una miccia dentro di noi, portando a galla qualcosa che innesca rabbia, felicità, tristezza, euforia. Non cado più nel tranello delle aspettative, riversando addosso agli altri speranze o emozioni che sono solo mie. Allo stesso modo, se qualcuno mi dice “mi hai fatto sentire (in colpa, una merda, sbagliato,…)” o cose del genere, so che la responsabilità non è mia, ma tutta sua, della sua esperienza e delle sue emozioni. Ci ho messo tantissimo ad arrivare qui e so che non sono arrivata in realtà da nessuna parte ancora, ma sono fiera di me.

Se adesso sto, finalmente, scrivendo, imparando a espormi e a darmi retta, è perché non vedo quasi più costrizioni esterne, il giudizio so che c’è, ma non è una mia responsabilità. E anche il mio di giudizio, quello più temuto, intimo e bloccante, ho imparato a sospenderlo. Per quanto mi riguarda, è un successo molto grande e sono felice che non sia più un tabù dire “vado dallo psicologo”, non è niente di cui vergognarsi, anzi, io lo vedo come sinonimo di curiosità e coraggio, di voglia di affrontare i problemi e familiarizzare con le proprie emozioni. Tornassi indietro, lo rifarei cento volte.

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